Dossier Balcani 2020 di RiVolti ai Balcani
Lungo la “rotta balcanica” arriva in Italia e in Europa una parte rilevante dei rifugiati del nostro continente.
Sono principalmente siriani, afghani, iracheni, iraniani, pakistani che fuggono da persecuzioni e conflitti
pluriennali. Lungo tutta la rotta continuano a verificarsi misure che mettono a rischio le persone migranti
come violenze, torture, respingimenti e restrizioni arbitrarie.
L’area balcanica rappresenta uno dei principali canali d’ingresso in Europa. Le prime 5 nazionalità dei
richiedenti asilo per quanto riguarda gli anni 2018 e 2019:
Il 32,7% proviene dall’Afghanistan
Il 25,91% dal Pakistan
L’ 8,03% dalla Siria
Il 6,56% dall’Iraq
Il 4,61% dall’Iran
Le stesse nazionalità le incontriamo lungo la rotta balcanica. I migranti nella loro via di fuga si trovano ad
entrare nell’Unione Europea (Grecia e Bulgaria) per poi uscire dalla stessa ed entrare nei diversi Paesi non-
EU (Bosnia, Montenegro, Serbia) dai quali poi uscire e rientrare più a Nord in Croazia e Slovenia.
L’area interessata è campo di politiche immigratorie e politiche di diritto d’asilo europee e può essere
considerata un simbolo della complessità e controversie di applicazione di esse.
L’intera area è da anni campo di applicazione di politiche di esternalizzazione finalizzate a contenere i flussi
migratori verso l’Europa occidentale.
Questo atteggiamento è riscontrabile nel Patto sulla Migrazione e l’Asilo proposto dalla Commissione
Europea il 23 settembre 2020. Il Patto ha come obiettivo prioritario quello di rafforzare i controlli alle
frontiere esterne all’Unione Europea. Il Patto, inoltre, propone di allargare quanto più possibile l’utilizzo di
procedure di frontiera per esaminare in modo veloce e con garanzie procedurali ridotte il maggior numero
di domande di asilo senza che questo comporti che i richiedenti asilo godano di uno status di soggiorno
legale nel Paese Ue coinvolto.
Grecia, Bulgaria e Croazia sono quindi destinate a diventare Paesi Hot Spot nei quali allestire giganteschi
campi di confinamento come, già avvenuto nel campo Moria a Lesbo (Grecia) che rappresenta la vergogna
dei nostri tempi. Conseguenza del Patto è inoltre la disseminazione, in questi paesi e in Italia (per la
gestione del Mediterraneo) di centri di detenzione per il rimpatrio di coloro le cui domande d’asilo sono
respinte.
Dal settembre 2015 centinaia di migliaia di persone giungono in Europa attraverso Grecia, Macedonia,
Serbia Croazia, Slovenia e Austria: in poco tempo, lungo un corridoio monitorato militarmente e
legalizzato, sorgono campi di transito, stazioni dei treni ad hoc, centri distribuzione, cliniche mediche, tutto
con una forte mobilitazione della società civile. Nel marzo 2016, tuttavia, come conseguenza di un accordo
tra Unione Europea e Turchia, viene serrato il canale lungo la rotta balcanica. Con la chiusura ufficiale
della Balkan Route nel marzo 2016 migliaia di persone si sono trovate intrappolate tra i confini dei Paesi
attraversati dalla rotta e così il viaggio verso l’Europa è tornato ad essere pericoloso e costoso.
Nella primavera 2018 vista l’enorme difficoltà di attraversare il confine a Nord tra la Croazia e la Serbia e la
chiusura dell’Ungheria (a causa del muro di Orban), una moltitudine inizia a spostarsi verso il confine tra la
Bosnia e la Croazia. Questo flusso aveva come obbiettivo Sarajevo dove registrarsi, chiedere asilo e
proseguire verso la UE.
A maggio 2018 in centinaia dormivano nel parco davanti alla Biblioteca Nazionale di Sarajevo. Tutti in
attesa di ricongiungersi con parenti o amici e raggiungere poi, via bus o treno il Cantone di Una Sana.
Da lì si riprendeva la corsa verso l’Europa tra boschi, fiumi e i violenti controlli della polizia croata e slovena.
La lentezza nella risposta delle grandi organizzazioni umanitarie e delle istituzioni ha messo in moto la
popolazione locale e i volontari con la creazione di campi informali di Sarajevo nell’ex studentato di Barici e
a Bihac nella Palude di Velika Kladisa.
A fine maggio arriva in visita a Sarajevo il presidente turco Herdogan. Per il decoro della città venivano
sgomberati gli accampamenti, i migranti vengono trasportati nei campi di Salakovac e Delijos, il numero di
persone in transito aumenta fino a superare le 2000 persone nell’estate. In quel momento è apparsa tutta
la debolezza politica del contesto locale e la precaria risposta internazionale.
La Bosnia è un Paese nel quale ogni Cantone, entità e città prende decisioni autonome senza che il governo
centrale imponga centralmente e gestisca la crisi migratoria. L’unica modalità d’intervento è stata quella di
un intermediario l’OIM (Organizzazione Internazionale Migranti) che è diventata la responsabile del
sistema di accoglienza nel Paese e gestisce i fondi dell’UE.
Anche la logistica è in mano all’OIM e questo rende la macchina farraginosa e complessa. A complicare il
tutto è anche il meccanismo di registrazione dei richiedenti asilo. In linea teorica entro sei mesi dalla prima
intervista dovrebbe far seguito la seconda ma il tempo si protrae anche oltre i 18 mesi previsti.
Davanti alle migliaia di intenzioni di richiesta d’asilo che vengono registrate le persone che di fatto arrivano
al termine della procedura sono poche decine, essendo evidente che la Bosnia è un Paese di transito e non
di destinazione.
Di fronte ad una crisi umanitaria sempre più vasta dall’estate 2018 l’OIM apre tre centri di accoglienza
temporanea (CAT) nel Cantone di Una Sana e uno a Usivak vicino a Sarajevo. Nel 2020 l’emergenza COVID
viene aperto un centro di emergenza provvisorio a Lipa località a 30 km da Bihac. In questi centri l’OIM è
responsabile dei bisogni di base dei migranti. Molti campi informali sono sorti. Nel 2020 sono state quasi
20000 le persone transitate nel Paese e registrate nei campi di accoglienza.
Con l’aumento del numero dei migranti e l’apertura di nuovi campi ma soprattutto con l’afflusso sempre
maggiore di giovani uomini l’atteggiamento della popolazione locale è cambiato. Nel 2018 i primi gruppi di
cittadini xenofobi hanno iniziato ad organizzare le proteste. Nel gruppo Fb circolano le peggiori notizie
legate ai migranti, identificati come clandestini, portatori di malattie, ladri, assassini e stupratori. Con loro
vengono messi alla gogna (criminali e trafficanti) associazioni e volontari che li aiutano.
Il 22 ottobre 2018 il gruppo di coordinamento operativo sui migranti a livello cantonale di Una Sana emana
una direttiva, ratificata dal Ministero per la Sicurezza, che vieta l’ingresso e il movimento a nuove persone
nel Cantone. La decisione dà il via all’ispezione della polizia sui nuovi arrivi dalla Repubblica Spska. Sulla
base di una relazione razziale la polizia sale sui bus e treni, le persone senza documenti vengono
abbandonate nella terra di nessuno. In una località nei pressi di Kljuc, dove vengono abbandonate queste
persone si attivano volontari e gruppi di solidarietà per dar vita, ancor oggi presente, al “Punto di
Vacelevo”.
Esemplare è la storia di Alì, un uomo tunisino, respinto dalla polizia croata durante il “viaggio” nel febbraio
2019. Si trova a vagare per le montagne innevate, spogliato di tutto, comprese scarpe e calze. Verrà
ritrovato a Bira con i piedi in cancrena e uno stato di prostrazione fisica e mentale indescrivibile. Morirà
mesi dopo, in una condizione terribile, solo, vittima più che dell’inverno, della polizia e delle politiche
europee.
Come lui, decine di altri, molte volte corpi senza nome. Inghiottiti dai fiumi, schiacciati dalle frane,
scomparsi nei baratri. Oltre alle continue violazioni dei diritti umani che subiscono i migranti, che vanno dal
divieto di accesso alla stragrande maggioranza dei supermercati, negozi, alla vita terribile che si vive nei
campi sovraffollati, sporchi, gestiti dall’OIM, a rendere ancora più teso il clima è la persecuzione continua
da parte delle istituzioni e dei cittadini.
A Bihac, con l’arrivo dell’estate 2019 e il numero in aumento come previsto, il comune decide di aprire una
tendopoli a pochi chilometri dal confine croato, dove un tempo sorgeva una discarica. È il “Jungle Camp” di
Vucjak. I migranti che non vengono catturati dalla polizia vanno a finire nelle mani di truppe paramilitari.
Vengono portati in un punto di raccolta e fatti marciare in salita per chilometri.
La Croce Rossa di Bihac, prova a distribuire il cibo, ma le quantità sono insufficienti. Il campo dovrebbe
accogliere al massimo 500 persone. Sono più di 1000: la “vita” diventa un inferno senza acqua, bagni e
luce.
Soltanto i ripetuti appelli delle Organizzazioni Non Governative (ONG) e il Report del Relatore Speciale per
i Diritti Umani delle Nazioni Unite oltre alle prime nevicate, lo sciopero della fame e le proteste degli
abitanti del campo, segnano la fine il 9 dicembre 2019 di uno dei capitoli più bui della storia delle
migrazioni a Bihac.
Nel 2020 la situazione peggiora anche a causa del COVID. A dicembre il braccio di ferro tra le istituzioni
locali (Camera di Bihac e Cantone di Una Sana) il governo centrale e la UE si esaspera. La UE chiede la
riapertura del campo di Bira e il ricollocamento dei disperati di Lipa, che vedono cadere la prima neve e le
tende. L’OIM, che da mesi dice di non gestire Lipa se il governo non avesse provveduto ad allacciare acqua
e luce, Il 23 dicembre lascia il sito. 1500 persone si trovano a vagare nel nulla in mezzo al terribile inverno
balcanico.
Ad inizio 2021 l’esercito bosniaco monta le prime tende senza interessarsi degli altri bisogni delle persone
che sopravvivono a stento senza che ci sia un piano di un’accoglienza dignitosa. I migranti protestano e
iniziano lo sciopero della fame.
La (non) gestione della situazione di Lipa è l’apice di una crisi politica più ampia e del fallimento delle
politiche di decentralizzazione dell’UE. Oltre 85 milioni di euro versati in questi anni non sono stati
sufficienti a pensare e riformare il sistema di accesso all’Unione Europea. A pagarne le conseguenze non
sono più solo le persone in transito ma anche lo sfilacciato tessuto sociale di un Paese in crisi come la
Bosnia.